La situazione di degrado nella quale si trovano oggi i fiumi modenesi è il frutto di un percorso storico durato circa due secoli, che ha visto l’opera dell’uomo rivolta con sempre maggiore energia a sottrarre al fiume i suoi spazi naturali. Tale processo si è poi enormemente accellerato negli ultimi 60 anni, con l’avvento di un modello di sviluppo basato sul consumo di territorio, il modello “cemento e mattone”. L’escavazione della ghiaia, prima dentro l’alveo e poi nelle conoidi, l’urbanizzazione massiccia che ha interessato anche le aree più vulnerabili, la riduzione dei suoli agricoli (negli ultimi 30 anni il ritmo di urbanizzazione in Emilia Romagna è di 8 ettari al giorno!) e la sempre più estesa impermeabilizzazione dei terreni hanno alterato il contesto ambientale, rendendolo precario è impoverito nelle sue risorse: suoli fertili, biodiversità ed acqua. Parlare di fiumi infatti vuol dire parlare di acque, acque superficiali ed acque sotterranee: per intenderci quelle che alimentano i nostri pozzi, quelle indispensabili per mantenere ambienti naturali e vivibili, per l’uomo e per le altre specie.
Oggi
i nostri fiumi sono ridotti di fatto a dei canali, stretti fra argini sempre
meno sicuri, obbligati a portare l’acqua al mare nel minor tempo possibile. Il
risultato è che da un lato i fiumi non alimentano più il sistema delle falde
con l’efficacia di un tempo (ed i suoli sono sempre più aridi), dall’altro nei
momenti di maggiore piovosità il sistema non regge e le piene diventano sempre
più lunghe e più pericolose. E in questa situazione di degrado le variazioni del clima con la
concentrazione degli eventi piovosi, pur in un contesto di minori
precipitazioni complessive, hanno reso il contesto ancora più fragile.
Ovviare
a queste situazioni con le casse
d’espansione, che altro non sono che cave riciclate, non basta più. Oggi
bisogna porsi l’obiettivo strategico di restituire
al Secchia ed al Panaro la loro fisionomia e la loro funzionalità idrogeologica.
Non si può pensare di rendere i nostri fiumi più sicuri semplicemente
sterminando nutrie e volpi o tornando a scavare negli alvei.
Ai nostri fiumi serve una
impegnativa opera di restauro ambientale, che gli ridia spazio, che ne
ripristini la funzionalità, che ne recuperi i paesaggi e gli ambienti naturali
tipici, che ponga rimedio ai guasti del passato e che ponga le basi per una più
avanzata e corretta convivenza con i nostri fiumi, che sono e resteranno
elementi indispensabili ed ineliminabili del nostro territorio. E non è un
utopia, esempi in altri paesi non mancano (per fare esempi in paesi vicini a
noi il fiume Rodano in Francia e diversi interventi sui fiumi svizzeri).
Tutto
ciò ovviamente richiederà risorse, perché ricostruire il Secchia ed il Panaro è davvero una grande opera. Molto
più utile ed importante delle autostrade e della TAV. E questo chiama in causa
non solo le amministrazioni locali e la Regione, ma anche e soprattutto il
Governo nazionale e la Comunità Europea:
indirizzi strategici di tale portata, e le relative risorse, devono arrivare
dal livello più alto.
E
tutto ciò ovviamente richiederà tempo, non si cambia dalla mattina alla sera
una situazione che si è storicamente determinata in tanti decenni. Ma il
compito della politica è questo, pensare al futuro, individuare obiettivi che
vadano oltre la durata di una legislatura o di un’amministrazione, cercare le
soluzioni più efficaci e non quelle apparentemente più facili o, peggio ancora,
più remunerative per qualcuno.
Intanto
sarebbe importante invertire la rotta e rinunciare,
ad esempio, a mettere sul fiume Secchia quella vera e propria pietra tombale
rappresentata dalla Bretella autostradale Campogalliano-Sassuolo, opera
assolutamente inutile e devastante, di cui stranamente nessuno parla in questa
campagna elettorale, fra 50 anni i nostri nipoti si chiederanno chi è stato
tanto incosciente da volerne la realizzazione.
Stefano Lugli
Candidato al Parlamento Europe
nella lista L’Altra Europa con Tsipras
Circoscrizione Nord est
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