C’è una domanda secca che sta alla base del prossimo voto delle elezioni europee: cancellare il fiscal compact. Questo è il punto chiave senza il quale ogni idea di cambio di marcia o di direzione è puro balletto, anzi un dimenarsi sulle sabbie mobili, quelle dell’austerità.
Il giro di valzer europeo del
giovane Renzi ha messo in mostra come già sullo 0,2% il gioco si fa duro e non
basta qualche battutina ammiccante o spavalda per venirne a capo. I primi distinguo
di Confindustria, come sempre oscillante tra “partito tedesco” e “partito
americano” e con la speranza di “beccare” i benefici, per sé, di entrambe le
soluzioni, mandano primi avvertimenti.
Con il Fiscal Compact sono in gioco
addirittura 3 punti annui, per 20 anni, di riduzioni per scendere al famigerato
60%. Roba da guerra totale. Ma, soprattutto, roba che non sta in piedi. Gli
specchietti che alcuni economisti pubblicano ci dicono che rispettare il Fiscal Compact costa 50 miliardi l’anno. Poi provano
a dire che la cifra si può ridurre se ci sarà la crescita, alla metà col 2%. Ma
il problema è che di questa crescita non c’è traccia e, come si è visto in
tutti i Paesi sottoposti alla cura dell’austerità, i tagli creano perdita di
Pil che il Fmi ha calcolato assai più ingente di quello che era stato previsto
dalla Troika.
Ma non solo. Il punto è che si continua a dare una lettura di parte, e
sbagliata, del debito. Debito come colpa e come colpa nazionale. Ora è
certo che i governi hanno in molti casi assai male operato ma così si occultano
le cause assai più strutturali del debito. Come si sarebbe dovuto ormai
abbondantemente ricostruire in modo conclamato esse sono almeno tre. Una, data
dalla globalizzazione, la svalutazione sistematica del lavoro, leggi una
riduzione dei redditi, che ha spostato il sostegno alla crescita prima
sull’indebitamento pubblico e poi su quello privato. Lo sfondamento operato
dalla rendita finanziaria che ha ottenuto per sé una quota di redditività
assolutamente insostenibile. Terzo, nello specifico europeo, una integrazione
viziata da un ideologismo liberale che invece che affrontare con
l’armonizzazione i fattori deleteri per la convivenza in area di moneta unica
come i differenziali dei tassi di occupazione e delle bilance commerciali,
prima “gestiti” con la svalutazione, si è “affidata” alle liberalizzazioni
finendo con l’aggravarli. Scelta, naturalmente, non neutra o puramente
“sbagliata” ma indirizzata dalla volontà di usare la frusta del combinato
liberalizzazioni – austerità per ricercare un “patto borghese” intorno alla
messa in angolo del lavoro, alla riduzione del pubblico per lasciar spazio al
profitto privato, ad una integrazione produttiva di stampo “tedesco” ma in
realtà di matrice di classe.
Non è un caso che ancora oggi, il
giovane Renzi che contesta l’idea di fare i compiti a casa su dettatura
rivendica di farli per sé e ripropone, come fece Blair dopo la Tatcher, una
innovazione nella continuità e cioè l’accompagnare qualche distinguo sulla
austerità con il calcare sulle deregolamentazioni ulteriori del lavoro e un
nuovo drastico taglio del pubblico. Con prospettive assai più fosche di quelle
blairiane data la gabbia dell’austerità ormai consolidata e i problemi posti
dalla integrazione europea di matrice liberale. Infatti, in questo, quadro,
neanche un qualche presunto impulso alla ripresa dei consumi, leggi i famosi 80
euro, regge il peso dei tagli né le conseguenze del peso strutturale dei
differenziali integrativi europei. A dircelo è la Germania che usa i suoi
aumenti produttivi per sostenere il dumping delle proprie esportazioni e che
soffoca un pur teorico ricorso alla crescita dei consumi come soluzione in un
quadro in cui non si modifichino le relazioni economiche strutturali. Come sono
solo palliativi, per quanto appetibili, le grida contro le alte retribuzioni
quando il problema è si tagliare queste ma anche alzare strutturalmente tutte
le altre.
Se questa lettura del debito
inquadrato nella globalizzazione e nella europeizzazione è motivata, la soluzione
passa obbligatoriamente dal rovesciamento di segno di entrambe e in particolare
della integrazione europea. Dire come fa Grillo che l’alternativa è uscire dal
Fiscal Compact o dall’euro rischia di essere un semplice passare dalla padella
alla brace in cui la brace è l’uscita dalla moneta unica mentre insistono tutti
i fattori strutturali che determinano la subordinazione dei soggetti e delle
economie deboli.
L’alternativa è invece trasformare un debito ampiamente causato
dai fattori europei da questione falsamente nazionale a questione europea,
anzi basilare per la costruzione di un’altra Europa. La strada cioè della
europeizzazione di tutto il debito eccedente il 60%. In tal modo esso
diverrebbe ampiamente sostenibile e motiverebbe solidaristicamente l’esistenza
della UE. Non solo. Determinerebbe le condizioni per affrontare le cause
strutturali del debito stesso dedicando ingenti risorse precisamente ad una
armonizzazione condivisa dei fattori di squlibrio e cioè i differenziali
occupazionali e commerciali e produttivi e a un aumento strutturale dei redditi
compreso il ricorso al salario di cittadinanza. Le risorse per questa
operazione, da affidare ad un grande piano di economia solidale e sostenibile
europeo, vengono da un ridimensionamento strutturale delle rendite, con
tassazioni e riforme, da un impiego di quote di surplus produttivi oggi usati a
sostegno esportativo dai Paesi forti e da risorse dei Paesi liberati dal
debito.
Si tratta così di ricostruire un
percorso solidale e comunitario alla unione europea ricollegandosi a ritroso a
quei valori fondanti le Costituzioni democratiche che erano, esse si, il
possibile viatico ad una Europa che si integrava grazie al proprio modello
sociale e democratico. Purtroppo si è scelto di perseguire un percorso opposto,
quello di un funzionalismo governista ed economicista, poi degenerato con
l’incombere della globalizzazione liberale. Questo percorso ci sta consegnando
non all’Europa compimento delle sue costituzioni rilanciate in chiave europea
ma ad una sorta di nuova società delle nazioni tenuta insieme dal codice del
wto, e cioè il peggio del passato e del presente.
Cancellare dunque il Fiscal Compact è il punto obbligato di inversione
di rotta
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